Svizzero di nascita, pienamente italiano nel suo sviluppo e nella sua maturità, internazionale come eredità. Deprecato e spesso utilizzato, a torto, come sinonimo di anti-calcio. Ma quanto vincente. Ecco a voi il catenaccio.
ORIGINI ED ARTEFICI
La parabola storica del catenaccio parte da squadre più deboli, di seconda fascia, e raggiunge successivamente le formazioni di vertice e di talento. Lì si ferma, esaurisce le sue potenzialità ed evolve in altro.
Tradizionalmente la prima apparizione del catenaccio sui campi di calcio viene fatta risalire all’esperienza di Karl Rappan (1905 – 1996). Austriaco di nascita, trascorre quasi tutta la sua carriera in Svizzera, dove inzia ad allenare all’inizio degli anni trenta, al Servette. Passa poi al Grasshopper ed in seguito siede sulla panchina della nazionale elvetica. In quegli anni matura la sua idea di calcio, rivoluzionaria per l’epoca. Parte dallo schema dominante, il metodo, o W-W, una sorta di 2-3-2-3. Capisce che le sue squadre devono coprirsi maggiormente perché alla pari, e contro avversari decisamente superiori, non c’è quasi mai partita. Pertanto sposta i due mediani arretrati in difesa. Lascia il centrocampo alla mercé dell’avversario, però lo condanna ad un possesso palla piuttosto sterile. I difensori sono diventati quattro, uno dei quali gioca in copertura, dietro agli altri. Alcune fonti in realtà sostengono che giocasse ancora con quattro difensori in linea, ma poco cambia. È nato il verrou, il chiavistello, ovvero il catenaccio. Provate a passare, adesso, se ci riuscite.
Nel dopoguerra, tre allenatori italiani costruiranno le basi decisive per il successo di questa tattica di gioco. Sono Viani, Foni e Rocco.
Dal ’45 al ’48 Giuseppe “Gipo” Viani (1909 – 1969) allena la Salernitana. Inventa un modulo che sarà definito in suo onore vianema. In breve, come Rappan, arretra un centrocampista in difesa, al centro, a marcare il centravanti avversario. Il reparto arretrato è già in origine formato da tre giocatori, in quanto il modulo di partenza è il W-M. Pertanto il centrale di difesa arretra ulteriormente e diventa a tutti gli effetti il libero. O meglio ancora, come lo chiamano gli inglesi, lo sweeper, colui che spazza via quando è l’ultima risorsa disponibile. Viani siederà anche sulla panchina dell’Italia, nel corso della sua carriera, e su quella del Milan.
Alfredo Foni (1911 – 1985) è l’allenatore dell’Inter nel 1952. Quell’anno, tra i nerazzurri, emerge il primo libero di fama della storia del calcio, Blason. È un difensore metodista che mal si adatta alla tattica del sistema, imperante. Foni lo sposta dietro i difensori, al centro. Ma non si limita a spazzare. Blason mostra una notevole capacità tecnica, in grado di anticipare le caratteristiche proprie dei futuri grandi liberi. Poi, altra grande novità, Foni arretra l’attaccante di fascia destra. Pertanto Armano, esterno destro di quell’Inter, diventa la prima ala tornante del calcio. Possiamo cominciare a chiamare catenaccio la tattica di gioco di Foni. Difesa ermetica e pochi gol segnati, il minimo indispensabile. Scandalizza i puristi, ma ottiene ottimi risultati. E si diffonde a macchia d’olio nel calcio italiano.
Nereo Rocco (1912 – 1979), detto “el paron”, è uno dei personaggi chiave del calcio nazionale. Guida diverse formazioni, ma lascia il segno soprattutto sulla panchina di tre squadre; la Triestina, negli anni quaranta; il Padova, negli anni cinquanta; il Milan, a più riprese, nei sessanta e nei settanta. I risultati sono straordinari e li vedremo nel prosieguo. Il suo è catenaccio, certo, ma spesso atipico. Non disdegna i gol ed il gioco offensivo. Il suo Milan vince lo scudetto del 1962/63 segnando ben 83 reti. Nella finale di Coppa campioni del 1969 schiera quattro giocatori offensivi: Hamrin, Sormani, Rivera e Prati. L’esito dell’incontro lo premia.
L’uomo di calcio che maggiormente legherà il suo nome alla tattica del catenaccio non sarà però un italiano, bensì Helenio Herrera (1910 – 1997). La squadra simbolo, la grande Inter da lui guidata nel corso degli anni ’60 del secolo scorso. Herrera, detto “il mago”, è argentino di nascita, spagnolo di origine, giramondo sin da piccolo. Terminata la carriera di calciatore, inizia ad allenare in Francia, poi in Spagna, dove emerge a livello internazionale. Vince due titoli spagnoli con l’Atletico Madrid, altri due con il Barcellona, oltre ad una Coppa delle fiere. Viene allontanato dai blaugrana in seguito ad una sconfitta contro i rivali del Real Madrid in Coppa campioni, ed anche per i contrasti insanabili con l’idolo di Catalogna, l’attaccante ungherese Kubala. Nel tempo, non sarà il solo giocatore a non reggere gli atteggiamenti del mago. Angelo Moratti, proprietario dell’Inter, lo ingaggia, garantendogli cifre altissime per l’epoca. Herrera è probabilmente il primo allenatore moderno del calcio. Motivatore, fine psicologo, spesso al centro della scena, cerca il rapporto diretto con i tifosi. È perfezionista in tema di tattica, ma non solo. Richiede disciplina ed obbedienza assoluta. Inventa il ritiro, cura la dieta dei calciatori, la preparazione fisica, l’uso della medicina applicata allo sport. Anche in maniera illecita, è stato detto, ma nulla è mai stato provato. Le prima due stagioni all’Inter sono avare di risultati. Dalla terza arretra anch’egli, come i suoi predecessori, un giocatore in difesa, cioè sposta Picchi da esterno al ruolo di libero. Questo garantisce maggiore libertà al terzino sinistro, Facchetti. La sua Inter spinge molto sulle fasce. Herrera richiede un gioco veloce, pochi passaggi per andare a rete, essenzialmente verticali. I risultati saranno straordinari. Herrera di sè dirà sempre di non essere stato compreso a fondo dalla critica. Di non essere mai stato, in realtà, un difensivista o un catenacciaro.
Segnalo infine, fra i grandi del catenaccio, il nome di Ferruccio Valcareggi (1919 – 2005). È commissario tecnico dell’Italia per otto anni, dal 1966 al 1974. Porta stabilmente a livello di nazionale i migliori esempi tratti dal campionato. Ma intuisce i tempi nuovi all’orizzonte e funge così da anello di congiunzione tra il catenaccio, al tramonto, ed il suo erede, il calcio c.d. all’italiana.
CARATTERISTICHE PRINCIPALI
Disse Rappan (tratto da La piramide invertita di Jonathan Wilson):
Una squadra può essere scelta in base a due punti di vista. O si hanno a disposizione undici individui, che grazie ad una classe purissima o di un talento innato sono in grado di battere i propri avversari – un esempio potrebbe essere il Brasile – o si punta su undici giocatori di medio valore, i quali devono però essere inseriti in un’idea di gioco specifica, in un progetto. Questo progetto si propone di tirar fuori il massimo da ogni singolo giocatore per far sì che sia tutta la squadra a beneficiarne. La cosa difficile è imporre un’assoluta disciplina tattica, senza però togliere ai giocatori la libertà di pensare ed agire.
Il catenaccio è stato dunque la necessità di organizzare il gioco. Di imbrigliarlo in regole, schemi tattici, disciplina, il tutto funzionale alla ricerca del risultato. Niente di terribile. Come detto, è nato come una specie di diritto del più debole, ma in seguito è stato usato da tutti. La tattica è assurta così a livelli prima mai raggiunti. Riflettiamo un attimo. Storicamente, una delle linee evolutive centrali nella storia del calcio, sino ad oggi, è stato il continuo aumento del numero fisso di difensori. Da uno, si è passati a due, poi a tre, poi a quattro (se non a cinque, in certe fasi). È una linea di tendenza mai invertita, se non a tratti. All’interno di questa evoluzione, decisiva, il catenaccio ha giocato un ruolo indispensabile.
La difesa, dunque. Nel catenaccio, era solitamente a quattro. C’era il libero, dietro, staccato, senza compiti di marcatura fissa. Rappresentava un’ulteriore linea difensiva: se saltava la prima, ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a coprire. Il più delle volte, ma non sempre, il libero spazzava via l’area, con dei gran calcioni alla palla. Gli altri difensori marcavano a uomo gli attaccanti avversari. Spesso anche il centrocampo marcava a uomo i centrocampisti opposti.
Le squadre schierate con il catenaccio non puntavano al possesso della palla. Si schieravano basse, affinché l’avversario tendesse ad allungarsi. Poi colpivano con il contrattacco. Era una ricerca di spazi, all’interno dei quali colpire. L’inferiorità numerica a centrocampo, vero rischio contro squadre schierate con moduli differenti, veniva ovviata tramite il lancio lungo. Altrimenti, tramite la spinta sulla fasce, con esterni in grado di saltare l’uomo.
La fase offensiva avveniva su linee verticali, meno rischiose rispetto ai passaggi su linee orizzontali. La velocità, di corsa e di esecuzione, era importante. Anche gli attaccanti comunque dovevano tornare a coprire. Ecco un altro modo per ovviare l’inferiorità nella zona centrale del campo.
Una delle caratteristiche fondamentali è stata la capacità di queste squadre di adattarsi all’avversario. Di studiarlo, di capirne le potenzialità ed i punti deboli, e poi di apportare le opportune modifiche alla propria formazione. L’opposto del fondamentalismo nel calcio, una lezione importante. Eccedendo in tal senso, però, c’era sempre il rischio di smarrire la propria identità, una fisionomia, e così la forza.
Il catenaccio prosperò in Italia. Secondo Gianni Brera, era l’unico modo per gli italiani del dopoguerra, poveri, di costituzione debole, inferiori fisicamente ai giocatori di altri Paesi, per vincere gli incontri. Il concetto può sembrare semplicistico, ma ha avuto notevole influenza.
Ha detto inoltre Brera, che fu sempre un grande estimatore del catenaccio:
Lo zero a zero è il risultato perfetto.
L’idea, semplice, cristallina, centra l’obiettivo. Non ogni volta, è chiaro, le eccezioni sono parecchie, ma la partita a reti inviolate indica che le due squadre sono state disciplinate, tatticamente corrette, senza sbavature. Sarà noioso, lo so. Ma il calcio, più che circo, è scacchi. (Fine prima parte. Nella seconda: schieramenti di gioco, risultati, eredità del catenaccio).
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