La bandiera dell'ex Jugoslavia

Le partite drammatiche della storia: Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado

Il 28 giugno 1914, ovverosia giorno di San Vito nonché sorta di festa nazionale per i serbi, l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando si trova in visita ufficiale in Bosnia, da poco annessa alla monarchia austro-ungarica. Conoscendo le date della sua visita, il gruppo nazionalista filoserbo Giovane Bosnia, gruppo politico che mira all’unificazione di tutti gli jugoslavi, ha preparato per tempo quello che sarebbe diventato l’attentato mortale per lui e la moglie Sofia.

Il momento dello sparo. Fonte viaggioinaustria.it

Il momento dello sparo. Fonte viaggioinaustria.it

Il designato erede al trono di una monarchia sempre più decadente e pachidermica come quella delle due aquile è un convinto conservatore. Tuttavia, vede con preoccupazione le varie spinte nazionalistiche sempre più forti all’interno del regno: per questo è perfettamente consapevole di dover dare maggiore autonomia alle province del regno stesso e considera quindi l’idea di uno stato federale basato sul suffragio universale. Questa idea non coincide, per usare un eufemismo, con i principi cardine della fossilizzata corte viennese; difatti, alla notizia della sua morte si narra che nemmeno l’imperatore reagì con troppa mestizia.

Poveri figlioli ma mi son tolto un peso

Questo fu il commento asciutto di Francesco Giuseppe.

La ginocchiata di Boban - Fonte Wikimedia

La ginocchiata di Boban – Fonte Wikimedia

Insomma, l’assassinio dell’arciduca più che il motivo fu un semplice pretesto per far scoppiare la Grande Guerra, conflitto che lasciò sul campo milioni di morti e una generazione intera di giovani europei. L’illustrazione del momento dell’assassinio, perpetuato da Gavrilo Princip, è un’immagine scolpita nella memoria collettiva.

Così come, circa 70 anni dopo, un’altra immagine rimarrà il simbolo dell’inizio di un altro grande conflitto che interesserà la regione slava. Un giovane calciatore croato col numero 10 sulla maglia e una ginocchiata in pieno volto a un poliziotto della milizia serba.

Aggregazioni e disgregazioni

Ma andiamo con ordine. Abbiamo parlato delle forti spinte nazionalistiche che hanno spinto la caduta dell’impero austroungarico. Il sogno della Giovane Bosnia diventa ben presto realtà. Il regno dei Croati, dei Serbi e degli Sloveni si costituisce alla fine della Prima Guerra Mondiale. Successivamente, nel 1929, il re Alessandro I cambia il nome al Regno, denominandolo finalmente Jugoslavia.

Ora però facciamo il definitivo passo in avanti nel tempo. Il 4 maggio 1980 muore l’eroe partigiano e il padre della patria jugoslava Josip Broz, nome di battaglia Tito. Sotto Tito la Jugoslavia conosce il periodo più straordinario della sua storia; personaggio carismatico come nessun altro, Tito riesce nella difficile impresa di tenere unite le varie etnie presenti nella nazione.

Morto il padre della patria, il problema delle spinte nazionalistiche si ripropone con forza all’interno della Jugoslavia. A conti fatti, e proprio perchè la storia è ciclica e talvolta paradossale, proprio nello stato sorto dalle ceneri dell’impero asburgico in nome della comune identità slava.

All’interno del governo jugoslavo post Tito insomma è sempre più presente il timore che le forze disgregatrici abbiano la meglio. Nel 1990 il nuovo primo ministro Ante Markovic, come probabilmente avrebbe fatto 70 anni prima l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando se solo ne avesse avuto il tempo, indice libere elezioni in tutte le repubbliche jugoslave: i risultati alimentano definitivamente le varie identità nazionali e in Croazia stravince l’HDZ, un movimento indipendentista guidato da Franjo Tudjman e fortemente critico verso il potere accentratore serbo.

In questa polveriera nazionalistica di voglia d’indipendentismo mischiato al crescente odio etnico, il calcio ci mette lo zampino. Il 13 maggio 1990, una settimana dopo l’esito delle votazioni, il campionato di calcio jugoslavo propone infatti Dinamo Zagabria contro Stella Rossa Belgrado. Ovverosia, il simbolo dell’orgoglio nazionalistico croato contro la squadra del popolo, la Stella Rossa.

Sulla carta, calcisticamente parlando, sarebbe una partita meravigliosa. La Stella Rossa, già campione di Jugoslavia prima di scendere in campo e futura vincitrice della Coppa Campioni 1990-1991, schiera Dejan “Genio” Savicevic, in attacco la scarpa d’oro (ma futuro scarpone con l’Inter) Darko Pancev, a centrocampo il grande talento (croato, ndr) Robert Prosinecki e la stella Dragan Stojkovic. La Dinamo, seconda in classifica, schiera un attaccante straordinario come Davor Suker e un giovane campioncino come capitano, il 21enne Zvonimir Boban, che con Savicevic dividerà la futura luminosa carriera col Milan.

Tigri e Milicija

Dopo la partita avevo previsto la guerra.

Non è una dichiarazione farneticante di un capoultras qualsiasi: è la frase del capo degli ultras belgradesi Zeljko Raznatovic, capopopolo che in futuro sarà meglio conosciuto con l’appellativo di comandante Arkan. Il comandante e le sue tigri, ovvero i suoi fedelissimi, molte delle quali effettivamente lo seguiranno in quella che sarà la più sanguinosa guerra civile degli ultimi 50 anni in Europa.

La Tigre Arkan. Fonte sport26rs

La Tigre Arkan. Fonte sport26rs

Intanto lo seguono sul treno che da Belgrado porta a Zagabria, devastandolo. Poi, non paghi del vandalismo sul treno, mettono a ferro e fuoco Zagabria. Allo stadio Maksimir ad attenderli ci sono i Bad Blue Boys, ovverosia gli ultras croati.

Dai cori di sfottò tipici di un prepartita, la miccia si accende attorno alle 18, un’ora prima dell’inizio dell’incontro. In curva sud, le tigri di Arkan o meglio dire i Delije (Eroi), invadono il settore posto alle loro spalle, lanciando i seggiolini divelti verso le tribune croate. Alla provocazione la milizia presente, a dire il vero poca e male equipaggiata, lascia fare. Lascia fare anche quando uno sparuto gruppo di tifosi croati, nel tentativo di “difendere” il territorio, viene picchiato selvaggiamente dai tifosi belgradesi in soprannumero.

A questo punto nella tribuna nord, feudo dei Bad Blue Boys, scoppia la rivolta. I tifosi croati, per lo più giovanissimi, invadono il campo in massa per difendere i loro compagni in difficoltà: ma come per incanto, la milizia si sveglia dal torpore iniziale e si scaglia violentemente contro la tifoseria croata.

Scontri tra ultras e milizia. Fonte futbologia.org

Scontri tra ultras e milizia. Fonte futbologia.org

Proprio nel bel mezzo dei disordini entrano le squadre in campo. La partita viene immediatamente sospesa ma alcuni calciatori della Dinamo parteciperanno attivamente agli scontri, tra cui la stellina 21enne con la fascia di capitano al braccio, che ricorda così:

Mi avventai su un poliziotto al grido di “vergognatevi, state massacrando i bambini”. “Stai zitto figlio di puttana, sei come tutti gli altri”, la risposta dell’agente. Non ci vidi più, ebbi una reazione d’istinto.

Fu allora che un giovane calciatore croato fratturò la mascella con un calcio al miliziano simbolo dell’oppressione serba, un po’come 70 anni prima un serbo a nome di tutti gli slavi aveva sparato al simbolo dell’impero asburgico.

Potremmo continuare a scrivere del fatto che la tv croata mandò per ore e ore i filmati degli scontri, incidenti che causarono più di 100 feriti. Potremmo parlare dell’eroizzazione in chiave nazionalistica degli ultras della Dinamo, ai quali è stato pure dedicato un monumento fuori dallo stadio Maksimir. Ma a noi interessa di più chiudere il cerchio del racconto: proprio perchè la storia è ciclica e talvolta paradossale, nessuno si è mai chiesto chi diavolo fosse quel poliziotto. Oggi, a distanza di vent’anni, possiamo solo sorridere amaramente del fatto che si trattasse di un ragazzo bosniaco e musulmano, ovverosia un ragazzo appartenente all’etnia più duramente colpita dalla feroce guerra civile alle porte: un anno dopo infatti, Slovenia e Croazia proclameranno la loro indipendenza scatenando di fatto il conflitto bellico.

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