Vedi Pjotr, la vita a volte somiglia incredibilmente al calcio. Dovresti saperlo visto che eri con me davanti alla televisione per la finale di Champions League 2014, anche se sembravi più concentrato a smanettare con il mio cellulare a dire il vero.
Da una parte c’era l’Atlético de Madrid, tignosa squadra campione di Spagna un po’ a sorpresa, dotata di qualche individualità ma molto più votata al collettivo, forgiata da un ex-giocatore che in campo ha sempre dato tutto, El Cholo, l’argentino meticcio Pablo Diego Simeone.
Un allenatore dalla filosofia calcistica forte, un misto di carattere inossidabile, fede religiosa nel gruppo, senso di appartenenza, lavoro duro a testa bassa (tre allenamenti al giorno! 40% di goal del 2014 da palle inattive!!) e motivazione trascendentale. Una specie di Conte senza però il vittimismo condito dalla lagnetta passivo-aggressiva e dai capelli finti. I mantra del Cholo sono già divenuti famosi: “una partita alla volta”, “fino alla morte coi miei giocatori”, “lo sforzo non è negoziabile”. Talmente forte il Cholismo che nel 2013 è stato candidato dalla RAE (Real Academia Española, l’equivalente della nostra Accademia della Crusca) a neologismo dell’anno , fra quelli degni di entrare nel dizionario spagnolo insieme a autofoto, wasapear e bosón.
Dall’altra parte c’era invece il Real Madrid, gli spietati Galacticos. Una odiosa industria multinazionale del futbol dalle simpatie storicamente filo-dittatoriali, formata da giocatori collezionati come figurine, il cui singolo valore economico eguaglia certe piccole manovre finanziarie nazionali.
Una squadra che del collettivo sembrerebbe poter fare a meno, tanto di solito basta una giocata individuale di Bale o Cristiano Ronaldo (o prima ancora di Beckham, Ronaldo, Zidane), con le loro accelerazioni da fumetto, per risolvere l’incontro. Bella la vita di Ancelotti. La banale prova provata che l’unica cosa che conta per vincere nel calcio sono i soldi, e siccome ormai quasi tutte le squadre ne hanno parecchi, loro comunque per stare tranquilli ne hanno di più.
Lo dico al netto del pauperismo fuori luogo, della trita retorica di quelli che tifavano per gli indiani e non per i cowboy (frase che al solo pensarla mi ha invecchiato di almeno vent’anni) e del dovere morale di supportare sempre quelli piccoli, bruttarelli e solitamente perdenti. Mi duole ma capisco benissimo che per un moccioso come te, Pjotr, il fascino di un dream-team come il Real Madrid sarà irresistibile. La faccia da schiaffi, levigata e troppo sorridente del campione bionico CR7 batterà sempre il volto indio solcato dalle rughe e bruciato dal sole di Diego Pablo Simeone. Almeno finché il tuo riferimento culturale principale rimarrà Peppa Pig.
Il 24 maggio 2014 stavamo per assistere all’insolito lieto fine di una favola, allo stadio Da Luz di Lisbona. Il favorito dai pronostici, arrogante, ricco e potente che soccombe. L’underdog umile, volenteroso e operaio che sa risorgere dall’infierno della Segunda (nemmeno 15 anni fa) ed è pronto al doblete; nel giro di dieci giorni, Liga e Champions. Cancellare el fracaso di quaranta anni fa contro il Bayern all’Heysel, prendersi l’unica coppa che manca in bacheca. Adesso ve lo facciamo rimangiare quel “Patético De Madrid”, vediamo se ci chiamate ancora Pupas, gli sfigati. El Atlético es diferente. Quando il Real gioca in casa partite di scarso interesse, i suoi tifosi si rivendono i biglietti ai turisti e lasciano il Santiago Bernabeu mezzo vuoto. L’Atleti, quando è retrocesso nel 2000, staccava più biglietti per le partite in casa di quando militava in Primera. I tifosi rojiblancos si identificano totalmente con la loro squadra, la loro fede incrollabile non vacilla davanti ai risultati negativi, ai presidenti imbarazzanti e alle crisi societarie. Siempre ¡Aupa Atleti!
Una partita bruttina la finale, un distillato puro di cholismo: lotta su ogni pallone, sofferenza, concentrazione, determinazione a resistere in piedi fino alla fine. Un match reso accettabile esteticamente dalla decisione dei colchoneros di indossare finalmente la divisa ufficiale coi pantaloncini blu, lasciando negli spogliatoi quella della Maceratese (cit. Tommaso Tamas Giancarli), e reso godibile calcisticamente dalle cappelle mostruose del giocatore gallese più costoso della storia del calcio, Gareth Bale.
L’Atlético è rimasto subito senza attaccanti, visto che Diego Costa è uscito dopo 9 minuti nonostante le cure a base di placenta di cavallo, che alla fine tanto miracolose non erano. Poi è arrivato il goal inatteso di Godin, difensore che nel 2003 valeva 27 euro, un uruguagio dalla faccia malinconica e dalla calvizie incipiente. In tutto i biancorossi hanno tirato in porta 9 volte, il Real più del doppio. La squadra di Simeone ha resistito all’arrembaggio merengue per 93 minuti, ribattendo colpo su colpo, esaurendo tutte le energie, arrivando a mettere praticamente una mano sopra la coppa orecchiuta.
A un minuto dalla fine di tutto, lo schiaffo che ti riporta con i piedi per terra. Tiago si perde per un attimo Sergio Ramos, gli concede un colpo di testa malevolo, l’incubo esorcizzato per 93 minuti diventa realtà, il pallone in fondo al sacco, una sprangata letale sulle gambe già esauste dei colchoneros. Poi il blackout nei supplementari, per risvegliarsi sotto di tre goal, il detestabile dentone di Madeira che esulta spudorato per aver segnato su rigore, El Cholo espulso, il cuore a pezzi.
E ora per l’Atlético, alla fine di una stagione memorabile, occorre fare i conti con 500 milioni di debiti e forse vendere i suoi pezzi pregiati.
Sarebbe fantastico credere il contrario, ma nonostante il romantico cholismo, nonostante sia sacrosanto che nello sport non bisogna mollare mai, nonostante non è finita finché non è finita, questa finale ci ha ricordato ancora una volta che raramente trionfa la giustizia poetica. Quasi mai Golia ci lascia le penne nel calcio.
Figurati nella vita, figliuolo.
Nel calcio contano I campioni.
Da qualche tempo, I campioni vanno solo dove ci sono I soldi e il blasone non conta più (che poi col real manco tiene come discorso, ma vabbe), questo genera l’idea fuorviante per cui nel calcio contano I soldi.
Ma è sport e lo sport è ancora una roba tendenzialmente meritocratica in cui il più forte vince. È giusto ed è bello che sia così, caro Pjotr, non dar retta a tuo padre.
Se vuoi criticare la società capitalista e consumista in cui viviamo fallo, ne hai tutti I diritti e le ragioni, ma alla base resta che ha vinto il più forte, oltretutto credendoci fino in fondo e ribaltando un’ingiustizia derivata dall’infortunio del portiere più vincente al mondo.
È stata una bellissima storia di sport, Pjotr.
Credimi.
molto vero quello che dici. i campioni vanno dove vanno i soldi. ha vinto la squadra con più campioni, ergo più soldi. è giusto e bello che sia così? non lo so, non direi sempre. a volte vince quello per cui fai il tifo e ti fa stare meglio anche se non merita tantissimo. che è un po’ l’essenza del tifo, che vorrei inculcare nel giovane Pjotr
Ma certo, finché si parla di tifo, di simpatizzare, non c’è nulla da dire. Tifare lo sfavorito e vederlo vincere da un certo godimento.
Ma anche quando non si tifa, se lo sfavorito fa l’impresa e vince con merito, io solitamente godo.
Che mi da fastidio è lo strisciante pensiero che ascrive una possibile vittoria delle squadre favorite, più forti, alla lista delle ingiustizie. Non è così, a mio avviso, e se lo diciamo è solo perchè siamo invidiosi.
Il Milan di Berlusconi (roba orrenda da scrivere e da dire, ma ahimè, mi tocca) ha vinto tutto perchè surclassava gli altri per qualità. Poteva farlo anche perchè si permetteva di comprare un pallone d’oro come Papin solo per allungare la panchina. Comprare tutto il meglio che c’è in giro per uccidere la concorrenza è un concetto sportivo? Forse no. E’ una politica che sposo o condivido? Ideologicamente certo che no, anche se negarne l’efficacia è difficile. Quel che conta però è che alla fine se sei il più forte devi vincere. O comunque devi vincere se sei quello che ha fatto meglio, indipendentemente dal valore sulla carta. Altrimenti è un’ingiustizia.
Così non fosse, sarei juventino.
el cholo ha fatto le nozze coi fichi secchi, il parco giocatori che aveva nel giro di due tre anni l’ha trasformato in squadra vincente. da quando c’è lui ogni anno l’atletico ha venduto top player senza fare spese faraoniche e quest’anno ha già venduto david villa, per dire. se permetti ho stima maggiore di una squadra “povera” che sa inculcare una mentalità vincente a giocatori poco famosi di una che si limita a completare l’album delle figurine con i vari campioni strappandoli altrove a suon di milioni di euro. forse ho visto troppi film con Bud Spencer- i toni del post sono volutamente carichi, si tratta sempre di instillare la faziosità in un unenne. che probabilmente del calcio se ne fotterà allegramente
No beh, il mio è un discorso generale eh. I toni del post ci stanno, ce l’avevo più che altro con la linea di pensiero generale esulando dal merito del tuo pezzo.
Quel che intendo (e poi la pianto eh) è che tu hai pienamente ragione quando dici che l’approccio di simeone e dell’atletico è più stimabile di quello del real. Lo penso anche io.
La roma di quest’anno partiva sfavorita e con un organico sulla carta inferiore alla juve, ma ha dimostrato di meritare stima con il gioco.
Simeone e soci hanno segnato al 16′ (tipo, non controllo) in una finale per un macroscopico errore di Casillas e poi non hanno più giocato a pallone.
Per me vincere una champions così non è una roba giusta. Se avessero dominato la partita allora sì. Ma ho visto l’atletico giocare 3 partite in CL e di queste ne ha meritata forse una. Un po’ poco per essere i vincitori GIUSTI.
Il Borussia lo scorso anno ha fatto una stagione fantastica e tifavo forte per loro in finale, ma hanno giustamente vinto quegli altri.
Ripeto poi che il tifo è tifo e non va giustificato, ci mancherebbe, ma il desiderio di infilare l’etica un po’ a forza nel calcio mi da abbastanza fastidio perchè a mio avviso non funziona.