Società in ostaggio

Società in ostaggio

Viaggio tra curve chiuse e potere ultrà

Roma in fuga con largo vantaggio sul Napoli – secondo – e sulla Juventus, appena un passo indietro. Seguono Inter, Milan e la (neanche troppo) sorpresa Atalanta, mentre a chiudere la classifica ci sono Udinese e Chievo, ancora a secco di punti nonostante la stagione volga quasi al termine.

No, non è la classifica di un campionato che si sta svolgendo nella mia testa, è semplicemente la graduatoria delle sanzioni comminate alle società di serie A dal giudice sportivo a causa delle intemperanze dei propri tifosi, siano esse fisiche (lanci di fumogeni o di oggetti) o verbali (razzismo, la famigerata discriminazione territoriale). Ecco qui la classifica completa al 19 marzo 2014, nella quale i punti sono, in realtà, migliaia di Euro.

Pos Società Multe

1

Roma

473

2

Napoli

209

3

Juventus

188

4

Inter

176

5

Milan

114

6

Atalanta

73

7

Lazio

56

8

Verona

54

9

Bologna

45

10

Fiorentina

30

11

Livorno

30

12

Cagliari

29

13

Parma

28

14

Catania

19

15

Sampdoria

12

16

Torino

8

17

Genoa

7

18

Sassuolo

4

19

Chievo

0

20

Udinese

0

Un campionato entusiasmante

Le grandi sono tutte lassù in cima e possono vantare ottimi risultati anche nella speciale classifica che tiene conto delle volte in cui le curve sono state chiuse: Inter in testa con 4, Roma che segue con 3, Milan, Juventus e Torino con 2 per quanto i milanisti siano gli unici a vantare una partita a porte chiuse, valore aggiunto che permette davvero di sbaragliare la concorrenza. Gli interventi del giudice sportivo in questo campo finora sono stati 134, e grazie alle multe la Lega ha incassato la bellezza di un milione e mezzo, con la Roma che contribuisce per quasi un terzo della cifra. Le cause più frequenti? Lancio di fumogeni e bengala, che nonostante tutti gli sforzi (?) da parte delle società continuano ad entrare senza alcun problema negli stadi, ma se guardiamo alla pesantezza delle sanzioni il reato punito con maggior rigore è indubbiamente la discriminazione territoriale sotto forma di cori. Non mancano – in misura minore – lanci di oggetti, insulti agli ufficiali di gara e l’uso di puntatori laser per distrarre l’avversario.

Meno violenza (più o meno)

In compenso gli incidenti sono stati pochissimi, casi isolati. Non è una novità: i dati dell’Osservatorio Nazionale dello Sport del Ministero dell’Interno registrano una costante diminuzione degli eventi violenti all’interno degli stadi. I dati forniti dall’ultimo rapporto si fermano alla stagione 2011/12, ma il trend è quanto mai chiaro: gli incontri con feriti tra A, B e Lega Pro sono passati da 209 a 60 tra il 2004/05 al 2011/12, così come il numero dei feriti è passato da 939 a 120. Passi avanti notevoli, si direbbe. Ma allora perché c’è la netta impressione che le cose non siano ancora tutte rose e fiori?

Il pomo della discordia

La stagione in corso ha visto l’introduzione del principio della discriminazione territoriale. Recependo le nuove direttive UEFA in tema di razzismo, la FIGC ha modificato il proprio codice di giustizia sportiva, e adesso il Titolo 1 Articolo 11 Comma 1 recita:

Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori.

A leggerlo così, sembra trattarsi di puro buonsenso. Ma non c’è bisogno di scomodare Gustave Le Bon per capire che il buonsenso c’entra poco quando si ha che fare con la folla. E il mondo ultrà è un perfetto esempio di folla, un mucchio selvaggio all’interno del quale tutto è permesso, specialmente ciò che nessun individuo si sognerebbe di fare in quanto individuo: avete mai visto qualcuno, da solo e per strada, iniziare a coprire di versi scimmieschi il primo tizio di colore che gli passa accanto?

Finché la norma è rimasta sulla carta, nessuno ha avuto niente da ridire. Ma non c’è voluto molto per vedere la prima applicazione pratica della nuova norma: già a metà agosto, in occasione della Supercoppa tra Lazio e Juventus, i tifosi laziali prendono di mira i coloured juventini Pogba, Asamoah e Ogbonna, e via con la prima chiusura della Curva Nord. Motivi di razza e colore, dunque, ma i problemi veri spuntano fuori più tardi, quando si inizia a punire anche la discriminazione territoriale. 22 settembre, Milan-Napoli. Il tifo di casa si esibisce nel classico “Noi non siamo napoletani”. Dal comunicato ufficiale:

Obbligo di disputare una gara con il settore dello stadio denominato “secondo anello blu” privo di spettatori: alla Soc. MILAN per avere alcuni suoi sostenitori, collocati in un settore dello stadio denominato “secondo anello blu”, in tre circostanze (prima dell’inizio della gara, all’ingresso delle squadre in campo ed al 19° del secondo tempo) indirizzato ai sostenitori della squadra avversaria un coro insultante, espressivo di discriminazione per origine territoriale.

Scatta la prima chiusura e apriti cielo. S’incazza Galliani che chiede l’abolizione della norma, ma soprattutto si incazzano gli ultrà, che danno il via ad una incredibile quanto improbabile gara di solidarietà tra curve che culmina con lo striscione esposto dai tifosi napoletani il 6 ottobre nella gara casalinga contro il Livorno:

Napoli colera. E adesso chiudeteci la curva.

Anni di odio reciproco vengono improvvisamente superati, in nome di un’identità ultrà comune e di un nuovo, unico nemico rappresentato dalle istituzioni.

Contro tutti e tutto

È l’inizio di un’escalation: le curve vanno dritte verso lo scontro, la mobilitazione è pressoché continua e e porta a risultati francamente spiazzanti e caratterizzati da una certa violenza verbale contro chiunque osi esprimersi contro la loro rabbia. Emblematico il caso Morandi: il cantante – presidente onorario del Bologna – esprime vergogna per i cori contro i napoletani e la settimana dopo i tifosi rispondono con uno striscione chiarissimo:

Uno su mille ce la fa a non dir banalità. Morandi fuori dai maroni, a quando le dimissioni?

Ancora più grave l’affaire Scirea: Mariella, vedova del grande libero bianconero, minaccia di togliere il nome del marito alla curva, i Drughi rispondono con un delirante comunicato in cui chiedono a Mariella di rinunciare al cognome del marito.

Quindi accettiamo l’invito (ribadiamo invito perché non esiste un documento ufficiale che ne abbia decretato l’intitolazione al marito) della signora e da ora in poi il cognome Scirea non identificherà più il settore più vero e sincero dello Stadium, ma anche lei facesse altrettanto tornando a farsi chiamare con il cognome da nubile: Cavanna.

Dunque, gli incidenti negli stadi sono diminuiti, ma c’è poco da festeggiare. L’impressione è che lo scontro si sia solo spostato su un piano differente e non necessariamente meno preoccupante. Il mondo ultrà non si accontenta più di fare ciò che vuole, ma va oltre, alla ricerca di una legittimazione, del riconoscimento del loro status come diritto inalienabile. La curva ha il diritto non solo di insultare chi preferisce, ma anche di dettare l’agenda della società, dalle scelte di mercato a quelle tecniche: lo sa bene il Milan, che in quest’annus horribilis ha in più occasioni accettato di far incontrare giocatori e capi ultrà, l’ultima volta dopo la sconfitta con il Parma. Giocatori e dirigenti devono rispondere a loro, non ci sono eccezioni. Le sanzioni colpiscono le società, non loro, e quindi diventano sostanzialmente inefficaci. La curva decide e agisce, le società sono più che mai ostaggio dei propri sostenitori. Il silenzio della Juventus sul caso Scirea, simbolo della società come pochi altri e dunque da difendere a tutti i costi, è allucinante e spiegabile soltanto con la paura dei bianconeri di innervosire la tifoseria. Un po’ come succedeva con il bambino Giorgio in quel meraviglioso racconto di Dino Buzzati intitolato Il bambino tiranno, i tifosi terrorizzano le dirigenze con capricci e minacce.

Il caso Lazio

D’altra parte mettersi contro i propri tifosi non conviene: lo sa bene Claudio Lotito, che da anni è in rotta – a dir poco – con i tifosi biancoazzurri. I motivi? Ufficialmente la gestione sparagnina della società e i risultati altalenanti, ma non è certo un mistero che i dissidi tra presidente e curva siano iniziati praticamente subito, quando Lotito si è trovato in mano una società dai conti imbarazzanti. Tra le iniziative prese per salvare il bilancio c’è stata la cancellazione dei biglietti gratis (un migliaio a partita) e un deciso giro di vite sulla protezione del brand laziale, che ha di fatto colpito il merchandising abusivo sul quale molti tifosi facevano affari d’oro con un network di negozi e negozietti sparsi per l’intera capitale. Il risultato? Anni di contestazioni sfociate negli stadi vuoti di quest’anno, con evidenti ripercussioni sul rendimento stesso della squadra.

E dunque?

Insomma, una situazione paradossale e di difficile lettura, soprattutto per quanto riguarda il futuro. Schiarite all’orizzonte non se ne vedono e di fronte alle idee chiare delle curve – scontro frontale, senza se e senza ma – gli altri attori sembrano impotenti: le società non possono ma soprattutto non vogliono prendere provvedimenti drastici, mentre la Federazione… bè, la Federazione da anni dimostra di avere le idee confuse su qualunque tema, e anche in questo caso non fa eccezione. Intanto gli stadi sono sempre più vuoti: in Serie A solo 5 squadre su 20 riescono in media a riempire lo stadio oltre il 60% della capacità. Giusto per il gusto del confronto, in Inghilterra si viaggia su medie del 90%. Al di là del danno economico, c’è anche un danno d’immagine del calcio italiano, immagine già a pezzi per mille altri motivi.

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